ArciLesbica citata da Pillon a RAI Radio1: la nemesi perfetta - MiX Festival Internazionale di Cinema LGBTQ+ e Cultura Queer

Inizialmente ho scelto il silenzio perché troppo veniva detto sul DDL Zan in una confusione mediatica che ben rappresenta la cattiva informazione che ormai circola in Italia. Nel silenzio ho però letto con attenzione critica il DDL Zan, il discorso che lo proponeva al dibattito alla Camera, il manifesto “degli uomini e delle donne di sinistra” e qualsiasi altra informazione diretta (e non riportata da altri e altre) sull’argomento. E poi ho scelto di appoggiare pienamente la lotta per l’approvazione del DDL Zan. Le mie letture sono state attente e, sinceramente, volte alla ricerca di una qualsiasi falla che rendesse il DDL Zan lesivo dei miei diritti di donna e di lesbica. Non ne ho trovate, né ho trovato alcun riferimento alla GPA (seppure citata nel suddetto “manifesto”) e quindi non ho remore a definire il manifesto pretestuoso e fuorviante. 

Sono una lesbofemminista radicale, ne sono orgogliosa e non lo sono diventata negli ultimi anni per il gusto di essere “contro”: lo sono da trenta anni e una tale definizione stabilisce inderogabilmente la mia identità più profonda che ha permeato ogni mia azione politica, personale e persino professionale. Sono “addirittura” separatista e nonostante ciò (o grazie proprio alla mia formazione e ai miei riferimenti politici e culturali) da anni co-dirigo un Festival del Cinema come il MiX che fa della diversità inclusiva e intersezionale il suo vanto. E allora mi chiedo: ma dov’è quel femminismo consapevole che abbatteva gli stereotipi e voleva distruggere i canoni culturali patriarcali che da secoli mortificano e uccidono la diversità delle donne? Che fine ha fatto il lesbofemminismo inclusivo che voleva costruire un mondo diverso e rispettoso della diversità, soprattutto della diversità delle minoranze? Come fa chi si proclama femminista radicale a non partire dal corpo quando è da lì che siamo partite? Si può oggi negare in maniera così cieca l’esistenza di uomini e donne che non si riconoscono nel corpo in cui sono nati e nate? E se non esiste una tale negazione come vogliamo definirla se non “identità di genere”? In quale delle due parole come donna (e lesbica) mi dovrei sentire offesa: “identità” o “genere”?  Non di certo “identità” perché il femminismo è nato come una politica identitaria e solo alcuni dei nuovi femminismi hanno poi virato dall’identità alla soggettività.  Allora “genere”, ma ogni parola ha un suo significato (finché non lo cambiamo perché non più adeguato ai tempi)  e se la definizione comune di “sesso” è “Il complesso dei caratteri anatomici e fisiologici che, negli organismi a riproduzione sessuale, contraddistinguono i maschi e le femmine della stessa specie”, quella di “genere” è “Il maschile e il femminile, intesi come risultante di un complesso di modelli culturali e sociali che caratterizzano ciascuno dei due sessi e ne condizionano il ruolo e il comportamento”. Cosa, nell’utilizzo di questo vocabolo, dovrebbe offendermi e in che modo mi cancella come donna (e lesbica)? 

Non accetterò mai che qualcuno o qualcuna mi definisca “cis-donna” per distinguermi da altre identità ma non negherò mai a nessun essere umano il diritto all’autodeterminazione e la libertà all’autodefinizione. Il diritto all’autodeterminazione della donna è stato invece negato dalla legge 40/2004 e mi sarebbe molto piaciuto che la levata di scudi di uomini e donne, femministe e non, si fosse levata non contro il DDL Zan ma contro quella legge o a favore dei referendum abrogativi dell’anno successivo (per i quali non si raggiunse il quorum e proprio noi donne e questi uomini “di sinistra” che così numerosi firmano un manifesto pretestuoso, dovremmo assumercene la responsabilità). È questa legge che permette in Italia la “gestazione per altri” solo a una casta di eterosessuali e uomini gay economicamente facoltosi portando spesso al mercimonio del corpo delle donne. Ma ricordiamo che è la stessa legge che vieta a due lesbiche di procedere alla fecondazione assistita in Italia creando anche in questo caso una casta di lesbiche che possono permettersi di andare a praticarla all’estero.

Da lesbofemminista radicale, ritengo che la voglia spasmodica di riprodursi “a propria immagine e somiglianza” debba essere oggetto di ampia riflessione antropologica ed etica ma ancora una volta è proprio la mia cultura a proibirmi di voler determinare i desideri degli altri e delle altre imponendo loro le mie categorie ideologiche. Domando però a tutti e a tutte perché il dibattito aspro ed escludente sulla GPA non sfoci in una più sana alleanza – congrua peraltro alla riflessione che auspicavo – per lottare insieme contro l’articolo 6 della “Nuova legge sulle adozioni e sugli affidi” che cita espressamente “L’adozione è permessa ai coniugi uniti in matrimonio”. E ancor più per antitesi mi offende (e dovrebbe offenderci tutti e tutte) l’articolo 2 della stessa legge che invece prevede che l’affido di un minore possa essere effettuato presso “un’altra famiglia, possibilmente con figli minori, o ad una persona singola, o ad una comunità di tipo familiare” e quindi anche a lesbiche e gay. Si può di conseguenza essere “madri” e “padri” temporanei, insieme o singolarmente, di minori provenienti da famiglie in difficoltà ma non si può esserlo per sempre. Si può quindi “tappare un buco” ma non si viene ritenuti e ritenute strutturalmente affidabili.

Ma nel titolo citavo ArciLesbica e non voglio farlo in maniera sommaria, escludente ed offensiva ovvero come lo fa la maggioranza di un movimento LGBTQ+ che, al pari del femminismo e del lesbofemminismo radicale, era invece nato per lottare insieme CONTRO l’annullamento delle diversità e non A FAVORE di un pensiero unico ed omologante.  In genere amo le voci dissonanti, le ascolto con maggior piacere perché credo che aggiungano al mio pensiero elementi diversi e quindi preziosi. Non è il caso di ArciLesbica che, da quando è nata come associazione, ha perseguito in maniera scientifica e aberrante il sensazionalismo spicciolo; condito da citazioni di rilievo, espresso con un vocabolario esteso e circostanziato, eppure sempre sensazionalismo e sempre spicciolo, avente come unico obiettivo quello di andare sui giornali, di fare clamore… Di essere citate da RAI Radio 1 in una delle sue trasmissioni più seguite e poco importa se a farlo è un individuo come Simone Pillon. E invece a me importa. E mi importa perché io ricordo come è nata e come ha agito ArciLesbica dal 1996 ad oggi: ora autoproclamatasi neo-femministe radicali e perfino separatiste, sono invece nate contro il lesbofemminismo radicale e separatista che a quei tempi rappresentava la maggioranza anzi l’unica espressione del lesbismo in Italia. Erano convinte allora o lo sono oggi? Mah… Temo che non sia una questione di convinzioni politiche ma di mero potere (ma quale potere e soprattutto per fare cosa?) e di un grave problema di incapacità di recepire nel profondo la distinzione tra le categorie di delega e rappresentanza la cui comprensione deve essere invece un punto fermo per chiunque voglia partecipare a un movimento spontaneista e autonomo come mi auguro il movimento LGBTQ+ resti per sempre.  

Non può esistere “la” voce del movimento ma solo “le” voci del movimento e questo mi piace ribadirlo ad ArciLesbica ma anche a chi pensa di avere il diritto di escludere dal movimento proprio ArciLesbica. O di imbrattare le loro saracinesche.