Occupa l’arte per non metterla da parte - MiX Festival Internazionale di Cinema LGBTQ+ e Cultura Queer

Sono oltre 300mila i lavoratori e le lavoratrici dello spettacolo (Istat 2019) che versano in condizioni economiche di estrema vulnerabilità a seguito dello scoppio della pandemia di Covid19 oltre un anno fa. Il divieto di spettacoli e concerti dal vivo, la chiusura di sale, ma anche quella delle scuole ha messo in ginocchio tutte le professionalità del comparto produttivo culturale: non solo attori e attrici, ma anche costumist*, scenograf*, regist*, tecnic* suoni e luci, facchin*, chi si occupa di montaggio di scena (e che lavora anche per le fiere), chi fa musica in ogni luogo in cui c’è musica, dai concerti ai ristoranti.

La condizione di stop forzato per questo settore che non si ferma mai – perché ci intrattiene quando siamo in vacanza, quando usciamo di sera, quando non lavoriamo, quindi quando smettiamo di essere produttiv* e ci dedichiamo alla nostra cura e cibo per la mente – ha permesso di fare luce sulle criticità tipiche delle condizioni strutturali del settore e che la pandemia ha solamente aggravato. 

La gestione politica – dapprima emergenziale, ma poi consolidatasi – della pandemia ha mostrato quanto nel nostro sistema si privilegi la produttività economica, si dia un’importanza secondaria e si trascuri la crescita culturale di un paese. E non si parla solo di spettacolo: anche la scuola è stata considerata meno importante della fabbrica. Eppure, se durante il lockdown non ci fossero state le arti, i film, la musica e l’intrattenimento, cosa ne sarebbe stato di noi? 

Per attirare l’attenzione pubblica e per fare rete – secondo l’ottica che solo con la solidarietà e l’unione si possa combattere e vincere – nel 2021 a Milano il Coordinamento Spettacolo Lombardia ha occupato il chiostro del Piccolo Teatro Grassi in via Rovello per 39 giorni. L’occupazione è stata ovviamente viva e creativa con un palinsesto ogni giorno diverso, un momento di grande fermento per la città, un’esperienza unica nata sull’urgenza ma destinata a fare un pezzo di storia di Milano. Ora l’occupazione è finita e le sue rivendicazioni politiche sono giunte a Roma facendo rete con altre organizzazioni simili su tutto il territorio nazionale.

Per saperne di più di quei giorni abbiamo intervistato Francesca Biffi, attrice, scenografa, costumista (in una parola: teatrante), membro del Coordinamento Spettacolo Lombardia. Ha fondato una compagnia teatrale ma non ha voluto dirci quale, perché ha voluto darci il suo contributo come membro del CDS, che non vuole attirare l’attenzione su una specifica realtà teatrale ma vuole appunto fare rete ed esprimere collettivamente la voce del settore.

Francesca, da quanto tempo fai questo lavoro e su cosa stavi lavorando quando è iniziata la pandemia? 

Faccio questo lavoro da circa 15 anni. Quando è cominciata la pandemia avevo in partenza una tournée di uno spettacolo di cui sono attrice e regista. Dopo i mesi di stop, questo spettacolo viene costantemente riprogrammato, ma le date continuano a saltare: proprio ieri due repliche di fine maggio che avevo programmato in Friuli sono saltate perché l’amministrazione comunale non se l’è sentita. Lo spettacolo era per le scuole superiori, un ambito molto sensibile, e,  essendo il teatro una sala comunale, l’amministrazione ha preferito che le scuole non partecipassero: nelle scuole ci sono ancora contagi, il teatro per ragazzi sta soffrendo in modo ancora più profondo. È comprensibile, ma fatto sta che spesso ci saltano le date in pochissimo tempo, per esempio 20 giorni prima dello spettacolo: programmare è veramente difficile.

Come è stata la tua vita da quanto è iniziata la pandemia? Da lavoratrice dello spettacolo come te la sei vissuta, sia dal punto di vista economico che da quello emotivo e creativo?

Hanno dato in totale 5 ristori alla categoria, l’ultimo a marzo 2021. Io sono una delle fortunate perché a oggi ho percepito tutti i bonus che sono stati erogati, anche se questi bonus non sono stati erogati con regolarità e, anzi, ci sono state incertezze continue: fino a 15 giorni prima non sapevamo se li potevamo ricevere oppure il bonus di agosto non veniva dato a chi aveva lavorato anche solo per un giorno. Bastava un giorno di lavoro per poter non accedere al bonus tout-court. Per fortuna hanno cambiato questa norma folle perché si sono resi conto in corso d’opera che nel nostro lavoro è proprio così, a volte lavori un giorno solo al mese e di certo non basta per vivere. 

Diciamo che i DPCM contenevano errori grossolani, che danno l’idea di quanto poco la politica conosca il settore dello spettacolo. Nel settore dello spettacolo dal vivo diverse giornate lavorative non emergono: per esempio tutti i lavori fatti per le scuole o per le amministrazioni comunali non rientrano nel conteggio delle giornate, perché queste non sono imprese di spettacolo e non possono assumerci.  Inoltre, molte cose di cui ci occupiamo non sono comprese nell’elenco dei codici Empals che ci permetterebbero di maturare contributi, basti pensare alle attività di formazione teatrale. Anche se noi siamo praticamente tutti e tutte anche insegnanti di teatro, i giorni in cui insegnamo non vengono conteggiati come giorni lavorativi da lavoratori e lavoratrici dello spettacolo. Tuttavia, i bonus venivano calcolati sulle giornate lavorate pre-pandemia. Inoltre non consideravano anche chi ha usufruito di casse integrazioni. Un esempio è quello dei clown di corsia, che sono a contratto con associazioni, ma non con specifica professionale di lavoratore dello spettacolo.

Dal punto di vista emotivo e creativo, durante i primi mesi sono entrata in una bolla di sopravvivenza a livello creativo, mi sono isolata per cercare di tenermi a galla. Io faccio tanto con le mani e questa cosa mi è mancata da morire: il silenzio in cui lavoro io è pieno di trapani e martelli e volevo quello, mentre il silenzio non cercato ma creato dal lockdown era inquietante

Ho cominciato a scrivere e ricominciato a disegnare, ho creato dei libri, ho creato un blog dove si potevano scaricare libri per bambini e poi ho cercato di ricominciare a lavorare come potevo, programmando e calendarizzando spettacoli, ma la litania era sempre la stessa: “Lo facciamo a settembre, lo facciamo dopo…” 

Un mese dopo l’inizio della pandemia, ad aprile 2020, sono entrata nel movimento Attrici e Attori Uniti, che è un pezzo del Coordinamento Spettacolo Lombardia. Ciò mi ha permesso di capire anche gli errori che facevo nel mio lavoro in quanto non consapevole su come tutelarmi. Per il Coordinamento sono stata fra i e le referenti del tavolo Manifesto: abbiamo iniziato a scrivere un documento di richieste su cosa sarebbe utile per riformare il settore, unificando tutti i documenti e gli spunti provenienti dagli avamposti dei territori in tutta italia (dai tecnici alle sarte); da questa intelligenza collettiva ed esperienza condivisa è nata la proposta di riforma che abbiamo presentato in Parlamento.

Perché il Coordinamento Spettacolo Lombardia ha occupato il Grassi Il 27 marzo 2021?

Il Coordinamento è nato il 30 maggio 2020 e, appena finito il lockdown, ha deciso di fare manifestazioni in ogni regione, dato che non ci si poteva ancora spostare da una regione all’altra. Il percorso è stato fulmineo e fin da subito pieno sia di difficoltà sia di frutti, da sempre convinti che la radice era comune per tutti: il percorso è poi continuato in varie manifestazioni anche nei confronti di Regione Lombardia, che non ci hai mai ascoltati.

Il 27 marzo abbiamo occupato il Piccolo Teatro Grassi non solo per segnalare l’ennesima “finta” riapertura del paese. C’era fermento in tutta Europa. in Francia molti teatri sono stati occupati e questo ci ha dato la spinta decisiva. L‘occupazione ci ha fornito un luogo di partecipazione e di confronto. È un anno che ci parliamo via webcam. Volevamo aprire il teatro a uno scambio sia con la cittadinanza (sempre tamponati, distanziati e con un numero massimo di accessi) sia tra operatori, che fosse uno spazio, ma anche un momento, dove parlarsi e confrontarsi. Fino a quel momento siamo stati inscatolati – chi dentro i propri teatri chiusi, chi online – e sentivamo la necessità di incontrarci.

Il momento è anche decisivo per l’attenzione pubblica e politica. Per riformare il settore dello spettacolo negli ultimi 50 anni è stata presentata solo una proposta di legge, mentre solo quest’anno fra Camera e Senato ne hanno presentate cinque. Queste proposte però non riflettevano le nostre esigenze. Sapevamo che il Ministro aveva nominato un gruppo di sette esperti incaricandoli di fare sintesi fra le diverse proposte di legge ed eravamo consapevoli che, se avessimo voluto incidere sul processo, avremmo dovuto portare la nostra esperienza concreta di operatori e operatrici e rappresentare con la nostra voce le criticità del settore. Non potevamo perdere tempo. Era il momento di dire la nostra, entrare a gamba tesa nel processo di definizione della legislazione che ci riguarda. 

Raccontaci di quei 39 giorni: cosa succedeva? Come venivano organizzate le varie iniziative di spettacolo? Qual era la tua giornata tipo? 

Tenere un’occupazione per 39 giorni non è facile, ma è stata molto vivace, come doveva essere. Non siamo stati soli però: abbiamo convissuto con gli studenti dell’Accademia di Belle Arti, gli studenti universitari, i lavoratori dell’arte contemporanea. Il gruppo che organizzava le giornate era di circa 50 persone, che offrivano disponibilità e competenze diverse, in base all’argomento affrontato in quel giorno.

Io mi sono occupata della parte politica e del confronto con i piccoli spazi e i teatri medio piccoli, con cui lavoro come scenografa. Gli spazi culturali e i teatri sotto i 100 posti non sono proprio stati considerati dai bonus, come se non esistessero. Di questi posti, dove si fanno arte e cultura reali e accessibili, non se ne conosce la potenza sociale. Non credo nemmeno ci sia un vero interesse politico di farli ripartire.  

Abbiamo deciso da subito due linee di comunicazione: una molto pratica e puntuale sulla proposta di riforma, che comprendesse l’intero settore (sostegno ai singoli lavoratori e lavoratrici ma anche agli spazi quali teatri, compagnie, piccole sale) e una rivolta alla cittadinanza. Abbiamo organizzato perfomance artistiche, eventi aperti di diverso tipo come a una bellissima giornata sull’editoria indipendente che è stata molto partecipata, concerti, e spettacoli. L’ATIR, per esempio, ha fatto una performance con i ragazzi di uno spettacolo che a causa della pandemia non è mai andato in scena. Eventi importanti perché la cittadinanza mostrasse solidarietà, ci desse sostegno e appoggio, capisse cosa stavamo facendo e perché.  Per noi occupare un teatro come il Piccolo è stata una responsabilità. Avere il supporto dei milanesi e poter parlare anche mediante la loro voce è stato fondamentale.

Ricordo quando, in occasione della performance sulla sartoria e su Maria Lai ispirata al suo abbraccio alla montagna, ossia l’ultima dell’occupazione, fisicamente ma anche simbolicamente abbiamo abbracciato tutto il chiostro. In un’intervista a Radio Popolare il giorno prima avevo chiesto agli ascoltatori e alle ascoltatrici di portarci delle stoffe, se ne avevano. Un signore anziano è arrivato nel chiostro e ha chiesto apposta di me, mi ha portato un sacco di stoffe stirate: ha detto che ne aveva altre ma essendo venuto in tram il sacco si sarebbe fatto troppo pesante. Ho pensato a quando, il giorno prima, forse insieme alla moglie, le ha messe via per noi. È stato commovente

Ora avete presentato le vostre priorità per la riforma del lavoro nel settore dello spettacolo. Quali sono queste priorità e che prospettive ci sono per il loro accoglimento? 

Abbiamo presentato le nostre osservazioni a diversi onorevoli e siamo riusciti a consegnarla a Roberto Rampi della VII Commissione Cultura del Senato, che si è preso l’impegno di portarla avanti in Parlamento. Il nostro è un contributo molto solido perché è fatto dall’esperienza di chi questo lavoro lo fa e lo vive. Per esempio, la legge dovrebbe riconoscere ai lavoratori di questo settore l’intermittenza: in Italia intermittenza è il nome di un contratto e, per giunta, molto lesivo, perché indica la natura del nostro lavoro e non può indicare la natura del nostro contratto, mentre in altri paesi, come in Francia, è il nome di una condizione. Noi abbiamo bisogno di una indennità di discontinuità che copra quei periodi in cui non è vero che non lavoriamo: lavoriamo lo stesso ma ciò non risulta da nessuna parte. In quei momenti ci formiamo oppure creiamo proprio i nostri spettacoli. È lì che noi muoviamo (e a nostre spese: pochissim* di noi riescono ad accedere alla NASPI) l’economia degli altri settori, mica stiamo ferm*!

Prima ancora dell’indennità di discontinuità bisogna uniformare la nostra fiscalità: all’interno delle professioni dello spettacolo una stessa persona fa diversi mestieri, ma i contributi non vengono versati nella stessa cassa, talvolta siamo obbligati ad aprire la partita iva anche se di fatto siamo sempre subordinati, non decidiamo noi i nostri orari e, talvolta, non possiamo nemmeno decidere sul nostro aspetto! Il problema reale con riferimento ai contributi è che alcuni sono di competenza dell’ex Empals, altri vanno sotto la gestione separata INPS. Ciò perché i codici ex-Empals assegnati alle varie professioni dello spettacolo sono vecchi e non comprendono tutti i lavori che facciamo. Per esempio, c’è ancora il codice per gli attori di fotoromanzo, mentre manca un codice per chi insegna a un corso di teatro. Versando in casse diverse e che non si possono unire, non raggiungiamo mai il monte ore necessario per poter beneficiare delle tutele, come quella della maternità.

Sarebbe fondamentale istituire uno sportello di assunzione diretta, che permetta ai committenti di spettacolo (dai ristoranti che offrono musica dal vivo alle scuole, e non solo per teatri e per comuni) di assumere tutte le lavoratrici e i lavoratori dello spettacolo, pagare loro i contributi,  dare loro un’agibilità relativa. Una grande impresa di spettacolo mi paga i contributi, ogni altro committente no: dobbiamo quindi farci assumere da una cooperativa di lavoratori dello spettacolo, che diventa il nostro datore ai fini previdenziali. Tuttavia non tutte le cooperative sono oneste: alcune offrono contratti intermittenti a tempo determinato. A chi dice che potremmo pagarceli da noi i contributi, rispondo che l’’auto-versamento contributivo funzionerebbe in un mondo ideale, ma nella realtà non siamo l’elemento debole dello scambio domanda/offerta: la contrattazione diventa difficile perché ci porta a considerare quei contributi all’interno dei costi. Nel mondo della musica, dove esiste l’autoversamento contibutivo, il nero è aumentato.

Infine vogliamo che sia introdotto il concetto di responsabilità occupazionale, e che venga rispettato soprattutto dai grandi enti corporate (grandi eventi, fiere etc) o che percepiscono fondi pubblici ,in modo che la sorveglianza sia efficiente, prevedendo controlli e vigilanza sull’utilizzo dei fondi pubblici. L’osservatorio nazionale per lo spettacolo dal vivo e per l’audiovisivo esiste dal 2018 ma non è mai stato attivato. Secondo noi, oltre a partire, dovrebbe essere affiancato da osservatori regionali che facciano una mappatura delle realtà esistenti sui territori.

Il nostro percorso non è finito. Abbiamo terminato la parte sulla quale sapevamo che le proposte di legge avrebbero stretto la cinghia, cioè il trattamento retributivo, ma vogliamo contribuire su tutta la riforma del sistema dello spettacolo: fondi pubblici, circuitazione e come elargire in modo differente i fondi FUS, poiché attualmente i parametri sono sbilanciati a favore della copertura dei costi amministrativi, non creativi. Sappiamo che arriveranno altre proposte di legge, quindi insieme ad altri gruppi regionali e nazionali, teatri, spazi e compagnie porteremo avanti questo lavoro. Per il momento abbiamo visto la bozza della legge delega e già ci sono cose che vanno riviste. Speriamo che tutto il lavoro che stiamo facendo possa portare all’ascolto della nostra voce e a cambiamenti concreti nelle nostre vite.

Anche Fedez dal palco del primo maggio, prima di parlare del ddl Zan ha ricordato la grave situazione in cui versano lavoratrici e lavoratori del settore.

Possiamo evolverci come società, e godere della bellezza e dell’arte, solo se solleviamo l’industria creativa dalle preoccupazioni causate da una vita precaria, instabile e, talvolta, invisibile alle autorità. Per questo il MiX Festival appoggia le richieste del Coordinamento Spettacolo Lombardia e l’esperienza dell’occupazione come momento di rivendicazione. Del resto anche (alcuni di) loro appoggiano le nostre.