Buona parte dei cinefili sostiene che la risposta bruna all’ossigenata Marilyn Monroe sia Jane Russell . Certo, nulla di più lapalissiano, se pensiamo all’effervescenza di “Gli uomini preferiscono le bionde” o a “Gli uomini sposano le brune”, sequel sfortunato (e bruttino) uscito in sordina un paio d’anni dopo il predecessore hawksiano. Esiste però un altro nome che, quatto quatto, potrebbe gareggiare come contraltare perfetto di «dea» bionda Norma Jeane, quello della corvina Jean Peters .
Un sogno non ricercato
Nata il 15 ottobre 1926 e cresciuta in una famiglia di modeste origini dell’Ohio, dopo il diploma scolastico s’iscrisse all’Università del Michigan, con l’intento di diventare insegnante di letteratura. Ma lo sbarco a Hollywood era in agguato: nel 1945 vinse il concorso di bellezza Miss Ohio , complice un amico che inviò alla giuria alcuni suoi scatti. Il premio consisteva in un viaggio a Los Angeles con tanto di provino presso gli studi della 20th Century Fox . Un sogno non ricercato, ma perché non sfruttarlo?
L’avvio della carriera di Peters

Dopo aver convinto il potente Darryl F. Zanuck, capo dei capi della major, il cammino attoriale di Peters finalmente iniziò. Il debutto avviene nel 1947, accanto al sex symbol Tyrone Power, in “Il capitano di Castiglia” di Henry King. Il film riscuote un discreto margine al botteghino e la sua carriera comincia pian piano a ingranare, ottenendo buoni riscontri di critica e pubblico nei titoli successivi: diventa abile spadaccina in “La regina dei pirati” (1951, di Jacques Tourneur); Josefa, consorte di Emiliano Zapata alias Marlon Brando in “Viva Zapata!” (1952, di Elia Kazan); sorella di una malata Anne Baxter in “L’ultima foglia”, terzo dei cinque episodi che compongono “La giostra umana”(1952, di Howard Hawks).
“Mano pericolosa”, la sua prova migliore
Nel 1953, mentre Peters si scambiava confidenze con Joseph Cotten e Marilyn Monroe sul set di “Niagara”, Samuel Fuller stava organizzando le riprese di un film, che si rivelerà uno dei massimi capolavori del noir di serie B, “Mano pericolosa” , e gli occorreva un volto per il personaggio di Candy, ex amante di un piccolo criminale invischiato in intrighi spionistici. Il regista, dopo diversi provini (con la decisione sicura di scritturare Marilyn), vide passeggiare per puro caso Peters nei pressi degli studi: rimase talmente folgorato dal suo «bollente» ancheggiamento che, alla fine, il ruolo lo affidò a lei. Sarà la sua prova migliore, assieme al dimenticato “Hanno ucciso Vicki”, girato lo stesso anno.
Di indole morigerata
Ma Peters, in verità, non rappresentava solo l’ennesima pin-up dotata di forme invidiabili connesse a un bel visino e, sicuramente, a un carisma affabile. La sua spietata sinuosità , il suo sguardo contrappuntato da malizie tormentate , erano in realtà intrisi da un’ indole morigerata . Raymond Strait, in “Mrs. Howard Hughes” (libello di quart’ordine pubblicato nel 1970, unica fonte bibliografica sulla vita di Peters, ma tant’è), racconta che al di là dello schermo, l’attrice soffriva di eccessiva timidezza , talvolta sospinta ai margini della patologia. Insomma, non è una novità il «nulla è ciò che appare» propugnato dagli intriganti tentacoli della macchina cinematografica. Ovvietà, d’accordo. Però quello che non ha permesso a Peters di diventare una star ai livelli sacri, appunto, di Marilyn Monroe, Ava Gardner o Grace Kelly, era che considerava il proprio mestiere di attrice (non di diva, sia chiaro) come puro e semplice gioco . Scevra da inutili competizioni con colleghe e totalmente distante dal rischio di cadere nella rete in cui molte di queste rimasero impigliate, ovvero quella di (con)fondere set e realtà fino a diventare caricatura di se stesse, seppur consacrate all’immortalità ma schiacciate dal peso del glamour (vedi Joan Crawford o Mae West). L’unica rete che l’accalappiò fu quella del potente Howard Hughes, un amore che pagò a caro prezzo .
Il ritiro dalle scene
Dopo “Mano pericolosa”, la ritroviamo giusto una manciata di titoli in cui funge perlopiù da deuteragonista o da pura comprimaria (“Tre soldi nella fontana”, “L’ultimo apache”, “La lancia che uccide”, “A Man Called Peter”). Con appena 19 film all’attivo, Peters si ritirò dalle scene nel 1957 per sposare appunto Hughes, finendo così prigioniera , e al contempo unica regina (come affermerà lei stessa), di un regno votato all’insofferenza : a causa della megalomania (risaputa) del marito dovette abbandonare la recitazione e interrompere ogni rapporto d’amicizia coltivato fino a quel momento sui set. Una gabbia dorata che verrà «aperta» sono nel 1971, alla fine della loro unione (lei si risposerà dopo pochi mesi col produttore Stan Hough), riservando ai cocci del matrimonio appena infranto l’elegante discrezione che l’ha sempre contraddistinta:
«È stata e sarà sempre una questione sulla quale non ho nulla da dire»
Jean Peters
Colpita in seguito da leucemia , Peters ci lascia il 13 ottobre 2000 , due giorni prima del suo 74° compleanno.
E così, con una breve ma intensa carriera cinematografica, ricca di gioie, scommesse, paure e tribolazioni, risulterebbe tremendamente semplicistico ricondurre la sua figura unicamente a risposta bruna di Marilyn. Avrebbe meritato qualcosa di più rispetto alla volgare etichetta erotica affibbiatale dal gossip becero e da una critica distratta . Ma d’altronde, «That’s Entertainment» .