La crudeltà umana mi addolora ancora ma non mi sorprende più. E il dolore mi invade guardando i civili indifesi massacrati a Bucha ma anche i giovani soldati russi trucidati nei carri armati, perché si dovrebbe vivere per una bandiera e non morire per essa, magari contro la propria volontà o solo perché imbottiti di propaganda. E perché i morti sono “soggetti” senza più futuro o identità o patria. Sono morti e basta, morti per decisioni che in genere non hanno preso e forse nemmeno contribuito con un voto a prendere.
E i morti sono morti ovunque, in questo preciso momento abbiamo morti in Ucraina, in Palestina, in Siria, in Afghanistan ma anche in 10 stati in Africa, in 5 stati in Asia, in altri tre stati in Medio Oriente, in 2 stati nelle Americhe e in altri ben 3 stati in Europa. Eppure l’informazione mainstream ci dice che in Europa abbiamo vissuto in pace per 70 anni ma in Cecenia non hanno mai smesso di combattere e, tra le altre repubbliche ex-sovietiche, si combatte anche in Daghestan e in Artsakh (ex Nagorno-Karabakh). Se non le abbiamo mai sentite nominare forse è perché da lì non importiamo badanti o, più in generale, lavoratori e lavoratrici da sfruttare. Una riflessione sui nostri riferimenti geopolitici a questo punto sarebbe d’obbligo.
Ovviamente, vista la pessima figura fatta dall’Europa, tendiamo a rimuovere quanto accaduto nell’ultimo decennio del secolo scorso nell’area della ex-Jugoslavia. Anche in quel caso, come per quasi tutti i conflitti ad oggi in essere, le motivazioni sono surrettiziamente religiose ma nascondono in realtà l’unico motivo che regola le sorti del mondo dai tempi della clava: il potere (maschio ed eterosessuale). Una grossa riflessione sul razzismo etnico e religioso dovrebbe essere fatta sulla Polonia: grande e lodevole accoglienza a migliaia di persone ucraine mentre poche centinaia di afghan*, sirian* e irachen* continuavano a morire di freddo e fame al confine con la Bielorussia. Una accoglienza a dir poco sovranista e una Europa scarsamente incisiva e fondamentalmente egoista: un paio di rimbrotti e si ritorna a guardare al proprio ombelico.
Un altro enorme problema – connesso ovviamente alle stesse dinamiche di potere che regolano le guerre – è l’informazione (mainstream): in questa drammatica guerra di aggressione della Russia di Putin nei confronti dell’Ucraina, vengono sbrigativamente tacciate di filo-sovietismo le poche voci dissonanti che tentano di analizzare le gravi concause che l’hanno generata, sottolineando quanto una Europa distratta o connivente e una America abile e consueta tessitrice di trame interplanetarie, non solo non abbiano e non stiano tentando di fermarla, ma l’abbiano sobillata contando su un’altra circostanza storicamente innegabile: un dittatore basta provocarlo appena un po’ per fare in modo che agisca nell’unica maniera che conosce, la crudeltà. Perché che Putin fosse un crudele dittatore non l’abbiamo capito solo ora, vero? Per fatale coincidenza stavo leggendo la “Russia di Putin” di Anna Politkovskaja quando al secondo tentativo è stata barbaramente assassinata. Questo e, nello stesso anno, le immagini di Alexander Litvinenko che muore a Londra in una delle maniere più crudeli mai ipotizzate, sono solo due episodi sui quali la stampa mainstream occidentale ha finalmente concesso un minimo di “ribalta” alla crudeltà del regime dittatoriale di Putin. Tale crudeltà – lasciata dai media mainstream nell’ombra fino al 24 Febbraio di quest’anno – oggi sembra essere nota da tempo a tutt* ma di certo era nota alla comunità LGBTQ+ grazie anche all’opera di iniziative come il nostro MiX Festival – nel difficilissimo 2020, il pubblico del MiX ha per esempio premiato il bellissimo “And then we danced” di Levan Akin (Svezia, Georgia, Francia – 2019 – 106’), un film la cui proiezione nei cinema georgiani era stata violentemente contestata da parte della popolazione – e di persone come Yuri Guaina, arrestato in Russia – ironia della sorte, visti i violenti e perduranti scontri russo/ceceni – per essere andato a Mosca a protestare a favore dei diritti civili LGBTQ+ in Cecenia. La situazione è infatti difficile o drammatica nella maggior parte delle repubbliche ex-sovietiche e in Russia di fatto è stata rinforzata la famigerata 135-FZ , comunemente detta la legge “contro la propaganda LGBTQ+”.
Ma può mai essere un caso che nelle nazioni governate da dittature – de iure o de facto – i diritti della comunità LGBTQ+ siano inesistenti o continuamente a rischio? No, non è un caso. Da attivist* siamo da sempre convintə che non possa esistere una società democratica (e laica) senza una piena affermazione di tutti i diritti civili e che, viceversa, il loro affermarsi sia un motore imprescindibile e una delle maggiori leve abilitanti la conquista della democrazia e della laicità. Peraltro, nel caso ci fossimo distratt* da questo paradigma, ci pensano i patriarchi delle chiese, in questo caso Cirillo I per la chiesa ortodossa russa, a ricordarci che esistono le guerre “sante” e che uno dei loro capisaldi è essere contro i diritti civili LGBTQ+.
Però non dobbiamo distrarci e, soprattutto, dobbiamo uscire da una dicotomia che lentamente sta distruggendo il senso stesso dell’esistenza di una comunità LGBTQ+. Siamo “divers*” o “normali”? Siamo una comunità che vuole costruire un mondo diverso o integrarsi quanto prima possibile nel mondo che conosciamo? Attenzione alla scelta perché quello attuale è il mondo di potere e guerre che abbiamo descritto e nulla cambierà se il potere maschio ed eterosessuale ne concederà un pezzetto a noi donne e ai “new normal” LGBTQ+. Se anche noi smettiamo di rivendicare la nostra diversità – una diversità fatta anche di contraddizioni, di relazioni instabili, di donne e uomini (per scelta di genere o nascita) che lottano anche per adottare figl* e non solo per procrearl*, per lasciare liberamente i propri beni anche ad un* amic* o farsi accudire dalle persone che si considerano parte della propria famiglia d’elezione e non solo dal* propri* partner – allora dovremo assumerci anche noi la responsabilità dell’assenza di speranza per un futuro diverso e tanti uomini, donne e bambin* continueranno a morire nell’indifferenza e nell’ignoranza nostra e del mondo intero. E sarà così che le bandiere, e tra esse rischiamo ci sia metaforicamente anche quella rainbow, continueranno ad avere più valore delle vite e che – interpretando liberamente l’epilogo della storia di Petr Vladikov in “Stalingrado”, del giornalista e scrittore sovietico ebreo Vasilij Grossman – “tant* bambin* non riceveranno mai quel pezzo di cioccolata che era stato messo da parte per loro prima che una vita si spegnesse in battaglia”.